Pier Francesco Zarcone: Dio veterotestamentario e Dio cristiano
Pier Francesco Zarcone:
Dio veterotestamentario e Dio cristiano
Nel mondo romano-cattolico la lettura della Bibbia ha sempre costituito – per colpa delle gerarchie ecclesiastiche – qualcosa di estraneo alla cultura religiosa dei fedeli. Se parlassimo dell’argomento di fronte a un pubblico ci sarebbe da dire: “chi abbia letto tutta la Bibbia o almeno una buona parte di essa, Antico Testamento incluso, alzi la mano”. Niente di strano se non se ne alzasse nessuna.
Il misterioso e impenetrabile volere di Dio scelse come locum della Sua Rivelazione un popolo “di dura cervice” e privo delle fertili caratteristiche per cui i popoli passano alla Storia. Tutto sommato oltre alla redazione di quel che per un Cristiano è l’Antico Testamento, ed oltre alla letteratura religiosa che ne ha tratto le mosse, il contributo alla cultura dell’umanità da parte del popolo detto di Israele sarebbe nullo.
A differenza del Sacro Corano, la Bibbia ebraica non fu dettata né da angeli né da Dio, ma è opera umana attraverso cui per i Cristiani si sono manifestati elementi di ispirazione divina, cioè preannnunci della discesa del Lógos: il Cristo. Quindi non si tratta di “parola del Signore”. Poiché la successiva esegesi cristiana vi ha individuato tutta una serie di elementi preparatori della Rivelazione neotestamentaria, abbiamo che tra le righe di una narrrazione umana venne introdotta una comunicazione divina. Diciamo che solo in questo sta per noi Cristiani il valore della Bibbia ebraica e la ragione del suo inserimento nella Bibbia cristiana: da sola la Bibbia ebraica sarebbe un resoconto storico di alcune imprese di Israele non necessariamente suscettibile di interessare i goym, come dispregiativamente nell’Ebraismo sono definiti i non Ebrei.
La giudaica pienezza di sé non ha censurato la atrocità compiute durante la conquista della c.d. terra promesssa (ovviamente in nome di Dio o addirittura da Lui comandate). Fu una conquista risoltasi in massacri, definibili genocidi, ai danni delle popolazioni che l’abitavano. Chi scrive conobbe in gioventù persone diventate antigiudaiche, ancor prima della formazione dello Stato di Israele, grazie alla lettura delle antiche imprese del “popolo eletto” in Palestina. Ma torniamo a noi.
Ai primordi del Cristianesimo si incontra il vescovo eretico Marcione (85-160) che, effettuando una lettura assolutamente estremista delle Epistole di Paolo di Tarso, optò tra le altre cosa per l’eliminazione dell’Antico Testamento dalle Scritture cristiane. L’esegesi di Marcione si basava sul dato formale dell’abisso fra il Dio di Israele e il Dio-Padre predicato da Cristo.
Il più delle volte il Dio veterotestamentario appare cupo, collerico, autoritario al massimo, sanguinario, fonte di dolore per gli umani ecc. ecc.; degno di appartenere ai predicatori “fai-da-te” del radicalismo islamico. Come rilevato nel nostro recente articolo La “divinizzazione” del Cristo nel quadro del “monoteismo” giudaico, pubblicato su Studi Interculturali (n. 27 del 2023), l’esegesi biblica più moderna ha ripreso un dato già ben compreso da Giovanni Calvino (1509-1564): il Dio presente nell’Antico Testamento non è il Padre della Trinità cristiana, ma il Lógos, la seconda persona della Trinità. Peraltro, questo soggetto – individuabile “fra le righe” – è distinto e soverchiato dal “come” viene presentato nell’Antico Testamento: cioè a dire, il Lógos è mistificato dal modo ebraico di concepire il divino.
Parlare di un “Dio diverso” non è esagerazione. Lo è invece la piaggeria diplomatica con cui Giovanni Paolo II (1920-2005) definì gli Ebrei “fratelli maggiori nella fede”. Orbene, se le caratteristiche del Dio veterotestamentario e quelle di Dio-Padre del Nuovo Testamento danno l’immagine di due divinità agli antipodi, manca proprio l’identità di fede assunta a base dell’asserita fratellanza. Per cui anche il termine giudaico-cristiano – di cui si fa uso e abuso – può causare qualche problema.