Pier Francesco Zarcone: Il 25 aprile italiano, specchio di assenza di patria e mistificazione dei significati
Pier Francesco Zarcone:
Il 25 aprile italiano, specchio di assenza di patria e mistificazione dei significati
Prima di gridare al “sacrilegio laico” per l’accostamento tra partigiani e militi della X Mas si legga l’articolo, e dopo magari si gridi o si acconsenta. Tanto per chiarire fin da subito, chi scrive non sta con la X Mas, ma coi partigiani, pur rispettando i combattenti ed i morti dell’altra parte quando non criminali (e questo vale anche per i partigiani). Da specificare – giacché il “buonismo” interessato si infiltra dovunque – che l’assenza di criminalità non implica il non aver ucciso nemici, perché uno degli elementi indispensabili per vincere una guerra è ammazzarne il maggior numero possibile. Da che mondo è mondo.
Comunque i personaggi indicati nelle due immagini di questo testo [quella di apertura tratta da collettiva.it, l’altra da ariannaeditrice.it] hanno in comune qualcosa di importante: tutti fecero una scelta e di conseguenza combatterono; due minoranze in mezzo ad una massa vigliacca restata a casa per “correre in aiuto del vincitore” (una volta chiarito chi fosse). Era la sempiterna Italia del “viva Franza o viva Spagna basta che se magna”, impostazione inconcepibile per tanti altri popoli.
Nel verso di una nota canzone “repubblichina” c’era assolutamente del vero, tanto per i combattenti della RSI quanto per i partigiani:
Meglio un vigliacco che non ha bandiera,
uno che non ha sangue nelle vene,
uno che serberà la pelle intera.
Due minoranze perché nessuna delle fazioni in lotta fu mai un fenomeno di massa. O meglio, lo divennero i partigiani dal 25 aprile: molti Italiani corsero in loro aiuto a cose fatte.
Per argomentare l’assenza di una patria italiana manifestata dalle periodiche manifestazioni del 25 aprile partiamo da un esempio straniero, russo in ispecie (sopportino i russofobi), che manifesta un diverso modus procedendi in ordine alla storia patria, peraltro impossibile da riprodurre in Italia per mancanza del presupposto fondante.
Il 26 aprile 2023 il sito ariannaeditrice.it ha pubblicato l’articolo La patria è la patria di tutti, a firma di Roberto Buffagni (n. 1956) che sotto il titolo ha una fotografia opportunamente definita “molto significativa di una corrente essenziale della cultura russa”: in pratica, sull’automobile di un Russo
“sventolano bandiere della Federazione russa, dell’Impero zarista, dell’URSS e (…), anche un’icona del Mandylion, il Volto Santo di Gesù. Sul piano teorico, filosofico (…,) questo sventolio sincretista fa venire il mal di testa; ma sul piano culturale lato sensu, compresi i piani religioso (re-ligare) e politico, è perfettamente coerente: perché tutti coloro che si sono riconosciuti in queste bandiere sono figli della Madre Russia (qualcuno aggiungerà: della Santa Madre Russia). Negli anni della sua presidenza, Putin ha fatto due cose: a) ridare la stella rossa all’Armata “perché quella bandiera ha sventolato sulla Cancelleria di Berlino, e i nostri padri non sono morti invano”; b) fatto erigere una statua alta tre metri dell’Ammiraglio Kol´chak, comandante in capo delle Armate Bianche nella guerra civile, nel cortile dell’Accademia Navale di S. Pietroburgo. Motivo: riconciliazione dei compatrioti, a prescindere dalle scelte politiche, vittoriose o sconfitte, condivisibili o non condivisibili, del passato, perché LA PATRIA E’ LA PATRIA DI TUTTI. (…) E qui si vede che cosa potrebbe insegnare la buffa automobile russa carica di bandiere anche a noi italiani, all’indomani del 25 aprile, il giorno in cui si combattono, in una batracomiomachia di equivoci, menzogne, strumentalismi, i fantasmi d’una guerra civile. Intelligenti pauca.
Per gli Italiani l’insegnamento ricavabile, ammesso che venga accolto, sarebbe solo teorico, ovvero astratto. Tutta la storia russa dimostra le profonde radici sentimento patrio, quella italiana – stante il diverso sviluppo storico pre e post unitario – ne dimostra la mancanza: il tifo per la nazionale di calcio, a volte violento, nulla ha a che vedere col patriottismo. E veniamo all’Italia.
Per onestà e chiarezza l’autore di quest’articolo dichiara di essere iscritto a un partito (oggi ovviamente molto piccolo) fautore dell’indipendenza siciliana dall’Italia e quindi della fine del dominio coloniale italiano sull’isola (la Sardegna non sta affatto meglio). Natio viene dal latino natus, e patria da patres. Benché per vari secoli non siano stati per secoli né italici né italiani i patres dell’autore dell’articolo, tuttavia la questione della mancanza di una patria italiana si pone per tutti (continentali e isolani) ed è comunque interessante.
Sulla violenta conquista coloniale del Regno delle Due Sicilie da parte dei Caini italiani, sui massacri e sulle disastrose condizioni socio-economiche derivanti esiste ormai una vasta bibliografia, per quanto forse di opere poco lette, a cui si rimanda. Semmai è il caso di fare una considerazione: dopo secoli e secoli di piccole ma identitarie patrie italiche, sedi di lingue spesso a sé stanti poi ideologicamente mistificate come “dialetti” dai risorgimentalisti, era ovvio che l’unificazione – per giunta in uno Stato centralizzato – non unificasse le popolazioni. Se già prima le terre italiche erano state teatro di sanguinosi conflitti di campanile, il modo in cui fu realizzata l’unificazione non fece altro che rinfocolare gli odi di parte già esistenti e, in linea generale, i ciechi spiriti partigiani: chi non è con me è contro di me e va demonizzato anche dopo la stabile conclusione della lotta.
Qui non c’è spazio per affermare “si tratta comunque di morti per la patria”, giacché per ogni fazione la patria si identifica nella propria bandiera e non in una mai esistita e mai rappresentata “Madre Italia”. I morti delle parti vincitrici sono una cosa, quelli delle parti perdenti sono ben altra cosa.
Niente di strano, quindi, che gli eroici combattenti caduti a Gaeta e Civitella del Tronto sotto la bandiera duosiciliana difendendo il proprio paese dall’invasione straniera – in totale spregio del diritto internazionale (ma questo è tipico dei “liberali”) – siano periodicamente celebrati solo da c.d. “reazionari” e/o da patrioti meridionali. Non certo dall’italica maggioranza risorgimentalista che in buona parte nemmeno conosce bene cosa sia stato il risorgimento: i testi scolastici sono i meno indicati alla bisogna, e molti in Italia hanno letto solo quelli. E niente di strano che il 25 aprile continui ad essere festa divisiva.
Periodicamente qualche esponente della “destra-destra” (perché ormai la c.d. sinistra è “sinistra della destra”) se ne esce con l’esigenza di riappacificazione tra Italiani dimenticando, o facendo finta di dimenticare, che essi fra di loro non erano affatto pacificati prima del 25 aprile 1945. Ma tant’è.
Mancando del tutto i presupposti per l’imitazione dell’esempio russo, si potrebbe ripiegare su sistemi alternativi avendo un po’ di discernimento, di spirito analitico e meno faziosità strumentale. Cioè guardando gli avvenimenti a cui il 25 aprile si riferisce da uno specifico e diverso angolo di visuale, perché a ben vedere i contenuti del 25 aprile sono molto più articolati di quanto le imbalsamatrici celebrazioni ufficiali facciano credere. Solo festa della “liberazione” e festa “antifascista”? Beato chi ci crede!
In realtà nessuno di tali due significati è esatto, e per diventarlo richiederebbe tante specificazioni da rendere impossibile un nome sintetico per questa celebrazione.
Liberazione sì, ma solo dall’occupazione tedesca e dalla collaborazionista Repubblica Sociale, ma non dall’occupazione statunitense e dal suo collaborazionista Stato italiano prima ancora monarchico e poi repubblicano. Infatti gli yankees non se ne sono più andati dal 1945, hanno riempito l’Italia di basi militari e di bombe atomiche ed esibiscono un’arroganza non inferiore a quella teutonica. Quindi una liberazione molto relativa.
Festa antifascista? L’antifascismo è ormai un ectoplasma tanto sacralizzato quanto privo di significato, perché nessuna minaccia fascista è stata mai seria in assenza della parte retrostante a cui serviva che ci fosse, e che si chiama capitalismo e borghesia. Capitalismo e borghesia hanno vinto l’ultima tornata della lotta di classe, ma di essi nell’onomastica del 25 aprile non se ne fa menzione.
Ed è sintomatico che sia stata accreditata come canzone della Resistenza quel tormentone ormai privo di significato, ovviamente popolare in mezzo mondo ma che nessun partigiano ha mai cantato (non è chiaro nemmeno quando sia stata scritta), sul cui testo è meglio non fare commenti per non scivolare nella volgarità; canzone che va sotto il nome di Bella Ciao.
Canzone partigiana e cantata da partigiani – sul tema della russa Katyusha – era Fischia il vento, ma tra la “rossa primavera”, il “sol dell’avvenire” e la “rossa bandiera” era palesemente comunista, troppo comunista, e quindi anche il “prudente” Palmiro Togliatti, costretto dall’occupazione statunitense, alla fine si acconciò a Bella Ciao.
Ora, essere genericamente antifascista ma non anticapitalista equivale a criticare l’uso di una pistola ponendosi in sintonia con chi la impugna. Oggi non sembra proprio che siano in atto pericolosi rigurgiti fascisti: per prima cosa il capitalismo (nazionale e transnazionale) non ne ha bisogno, e poi i personaggi dell’attuale estrema destra italiana – francamente – più che far paura fanno ridere, fermo restando che la loro violenza sul paese si esercita mediante il più abietto servilismo verso gli Stati Uniti, rivelando cosa celasse l’asserito sovranismo.
Fare del 25 aprile una mera celebrazione antifascista significa, inoltre, cancellare il ruolo militare, innanzi tutto dei partigiani comunisti, di gran lunga maggioritari. Senza di loro non sarebbe neppure il caso di parlare di Resistenza armata.
Questo non significa certo rivendicare una Resistenza solo comunista, ma rivendicare l’esistenza forte (anche quantitativamente) della lotta di classe nel quadro della lotta antitedesca ed antirepubblichina. Quella lotta che si riflette nei contenuti della Costituzione che, se attuati dai governi “democratici” della Repubblica, avrebbero aperto la “via italiana al socialismo”; naturalmente se non ci fosse stato il dominio yankee sull’Italia. A togliere la questione di classe alla Resistenza la si priva di ogni contenuto politico trasformativo della realtà italiana.
Si accennava all’inizio alla parte giusta ed a quella sbagliata, che dal 1945 tengono banco, inutilmente. Si tratta di questioni politiche e storiche. Molto più opportuno sarebbe parlare delle motivazioni che presiedettero le scelte, soprattutto per quelle repubblichine. Ovviamente lasciando da parte fanatici, razzisti e sadici.
Demonizzare il nemico è utile, anzi è consigliabile, nel corso di un conflitto; dopo, è meglio lasciar stare, per evitare cattive figure. Molte scelte per la RSI furono conseguenza della melma etica in cui era sprofondata una dinastia traditrice (peraltro storicamente nota e recidiva) ed in cui aveva fatto sprofondare il paese. Aderire alla RSI non fu razionale, ma emotivamente comprensibile per tanti giovani educati in valori pubbblici, quand’anche non molto seguiti dagli stessi che li propugnavano.
Arriva il momento del “che fare?”, ineludibile per ogni critica. L’ideale sarebbe lasciare in solitudine i poco stimabili governanti italici a farsi la loro annuale celebrazione, e che persone di buona volontà riuscissero ad organizzare un 25 aprile che celebri la fine della guerra civile e mondiale in Italia e contenga l’invito a riprendere a lottare per l’indipendenza del paese. Ma probabilmente si tratta di una pia illusione.