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F. T. Marinetti: L’azionariato sociale (1919)

L’azionariato Sociale

I salari sono fissati ad una certa altezza che dipende dalla domanda di lavoro e dalla produttività del lavoro.
II capitale riceve un compenso che è e tende ad essere uguale al saggio dell’interesse corrente più una certa quota di rischio variabile.
Se — per esempio — c’è un impiego sicuro (come la rendita in tempi normali) al 5 % nessuno vorrà impiegare il suo risparmio in una impresa industriale che non renda per lo meno il 5 % più una quota per il rischio.
Cosi, se in una industria si ricava il 7,50 % e nondimeno un’azione di 100 lire di questa industria vale sul mercato 100 lire e non di più, non diciamo che la capitalizzazione è al 7,50 % perchè la conoscenza della industria porta a valutare a 2,50 % i rischi che comporta.
La ditta Pirelli, per esempio, avendo accumulato in un triennio una riserva di 6 milioni (dopo aver distribuito l’utile normale agli azionisti) divide la riserva in 3 milioni agli azionisti (come aumento gratuito di capitale) e 3 milioni al personale.
Ecco una dimostrazione pratica che non ci può essere vera partecipazione operaia ai profitti delle industrie senza intaccare la quota di rischio che forzatamente deve sostenere, incoraggiare, difendere gli azionisti e la industria stessa.
Infatti Pirelli non la chiama partecipazione agli utili, ma regalo o premio agli operai fatto con una parte delle eccedenze sull’utile normale.
Noi futuristi crediamo che bisogni imporre al più presto l’azionariato sociale cioè: la partecipazione degli operai alle imprese. Questa concezione geniale e pratica che è andata formandosi attraverso una serie di tentativi in America, in Francia e in Inghilterra, ha incontrato delle ostilità feroci che si giungerà però a superare vittoriosamente.
Filippo Carli, segretario generale della Camera di Commercio di Brescia, illustra, spiega e propugna con precisione lucida nella Rivista dell ‘Industrie illustrate italiane l’azionariato sociale.
Filippo Carli dice:
Il regime della fabbrica, diffusosi nell’Europa occidentale dopo la rivoluzione industriale inglese, spezzò definitivamente i rapporti di proprietà fra l’operaio e lo strumento di lavoro. Dopo di allora sorse ripetutamente, nei vari paesi, l’idea di ricostituire l’associazione fra il capitale ed il lavoro, poiché si sentiva più o meno oscuramente che in questa era la chiave dell’armonia fra le parti cooperanti alla produzione. Bisogna riconoscere però che il movimento fu affatto inadeguato allo scopo : molti tentativi fallirono, altri si trascinarono più o meno stentatamente, parecchi furono causa di profonde disillusioni. Tuttavia è da chiedersi se quegli esperimenti si compiessero con quella larghezza di vedute che sarebbe stata necessaria, e con quella sincerità che è condizione indispensabile del loro successo.
Fin dal 1825 si ebbero in Inghilterra i primi tentativi di partecipazionismo operaio, e da quell’anno fino al 1910 si fecero 221 di tali esperimenti, dei quali solo 70 erano in esistenza nel 1910, secondo i rilievi fatti dall’ Ufficio inglese del Lavoro ; e, in fondo, gli operai inglesi considerano attualmente questo procedimento con indifferenza. In Francia già negli anni quaranta, il movimento connesso alla età d’oro della borghesia, fece sorgere in alcuni spiriti illuminati l’idea della partecipazione ai profitti. Il primo tentativo concreto fu quello di Jean Leclaire nel 1842, il finale incontrò ogni sorta di difficoltà. Tuttavia l’idea fece strada, e nel 1879 per la prima volta fu proposto un disegno di legge al Parlamento francese da Laroche-Joubert, nell’intento di « pousser au système coopératif, c’est-a-dire à l’association de Intelligence du capital et du travail, par la participation imposée aux adjudica-teurs… ». Il concetto era che lo Stato imponesse la partecipazione agli aggiudicatari dei
lavori pubblici, per dare esso stesso l’esempio e per dimostrare l’utilità ai liberi imprenditori. L’idea fu ripresa nel 1895 dal Guillemet, persuaso com’era « qu’il n’y a rien de plus difficile à faire entendre aux gens que leur propre intérêt » e che quindi bisognava che lo Stato desse l’esempio. Dopo altri progetti, il Godard, nel 1909, si pose da un punto di vista più ampio, chiedendo la creazione di actions de jouissance du travail nell’intento di imporre alle società anonime l’ammortamento del loro capitale e di rendere il capitale iniziale e il lavoro comproprietari dell’attivo sociale liberato rispetto al primo mediante il rimborso delle azioni. Era questa la via maestra del nuovo partecipazionismo, la quale doveva condurre alla legge del 26 aprile 1917 sulle società anonime a partecipazione operaia. I principi fondamentali di questa legge, che si può considerare come il passo più decisivo fatto dalla legislazione moderna in tale campo, sono i seguenti :
1° Gli operai avranno diritto ad una parte dei benefici realizzati dall’impresa a cui sono adibiti.
2° Essi partecipano alla sua gestione, saranno rappresentati alle Assemblee generali, avranno il loro posto nel Consiglio di Amministrazione.
3° Essi avranno un diritto di credito eventuale sull’effettivo della società.
Dice l’art. 1 della legge: Le azioni della società si compongono : a) di azioni o parte di azioni di capitale; b) di azioni dette azioni di lavoro. Le azioni di lavoro sono la proprietà collettiva del personale salariato (operai ed impiegati dei due sessi) costituito in società commerciale cooperativa di mano d’opera in conformità dell’art. 68 della legge 24 luglio 1867, modificata dalla legge 1° agosto 1893. Questa società di mano d’opera comprenderà obbligatoriamente od esclusivamente, tutti i salariati adibiti all’impresa da almeno un anno ed aventi più di 21 anni di età… ». E per tal modo il lavoro, del pari del capitale, costituisce un diritto che dà origine ad un azione, l’azione di lavoro. Questo geniale concetto dell’azione di lavoro, viene a sovvertire completamente la nozione corrente del salario, ed a elevare il salariato al livello di un collaboratore del capitalista. Esso contiene in sè potenzialmente una profonda trasformazione economico-sociale, trasformazione alla quale noi pure dobbiamo
mirare. Certo, non mancano le obbiezioni di carattere dottrinale contro il principio informatore di tale legge, come non mancheranno le difficoltà della sua pratica applicazione : ma è fuor di dubbio che essa contiene una formola fondamentale di equilibrio sociale.
La grande idea è lanciata, un’idea che ha la potenza di un profondo rivolgimento legale nei rapporti fra le classi:”l’azionariato sociale “. C’è qui veramente la chiave dell’armonia tra capitale e lavoro nel dopo guerra : c’è tutto l’avvenire. Se le classi dirigenti hanno qualche incertezza, qualche ondeggiamento nell’applicazione di questo principio, sono perdute. E notisi che la legge francese non rappresenta se non un primo passo sulla via che deve condurre alla piena attuazione del principio : essa non sancisce che una facoltà, mentre si deve venire all’obbligatorietà; e probabilmente essa è destinata a combinarsi con alcuni principi propugnati dal Briand fino dal 1910. Secondo il progetto Briand, il 33 % dei benefici sarebbe riservato agli operai ; il 33 % al Capitalo ed al Consiglio di Amministrazione, in cui gli operai sono rappresentati in proporzione di almeno un quarto dei membri; l’altro 33 % sarebbe distribuito, quanto al 17 % sotto forma di premi a compensare gli operai di èdile, e quanto al
16 % al direttore tecnico, ingegneri, consigliere delegato, sotto forma di supplemento dei loro stipendi. E’ probabile dunque che notevoli passi innanzi si debbano fare; ma la via è questa, ed ogni deviazione sarebbe rovinosa : giacché non si può non riconoscere la legittimità storico-sociale e demografico-economica del fondamento su cui posa il nuovo principio. L ’impresa non è più, nella nostra società, una funzione privata: è una funzione pubblica nei suoi presupposti, nel suo svolgimento, nelle sue conseguenze. Viceversa l’imprenditore nell’atto in cui assolda mille, duemila, diecimila operai, per una determinata forma di produzione, tende ad accaparrare nel proprio individuale interesse una parte delle forze nazionali la nazione gli cede una parte del proprio organismo affinchè egli ne disponga come crederà più opportuno: e da allora la vita e l’avvenire di questa parte della nazione, dipendono dal suo arbitrio e dalla sua capacità. A questo punto è legittimo che sorga il diritto della collettività
nazionale a limitare quello dell’individuo: rappresentata da quei mille o duemila o diecimila operai che furono assunti dall’individuo imprenditore — il quale, notisi bene, deve allo stesso ambiente sociale una gran parte della sua capacità tecnica e della sua potenzialità economica — la collettività nazionale insorge ed afferma il suo diritto a partecipare all’impresa. Spunta l’azione sociale. Un radicale rivolgimento è avvenuto nei principi del salario, poiché questo riesce così composte di due quote: una quota con la quale all’operaio è assicurata la semplice esistenza e che pertanto si potrebbe chiamare biologica, ed una quota con la quale e per la quale l’operaio partecipa in modo cosciente ai benefici della gestione sociale.
Umberto Notari, direttore delle Industrie illustrate italiane, da me interrogato sull’opposizione che la sua campagna in favore dell’azionariato sociale ha incontrato nell’ambiente industriale, mi disse:
«Uno dei principali oppositori, Pirelli, non ha trovato, in fondo, che queste due obbiezioni:
1) Accogliere nel consiglio di amministrazione degli operai vuol dire accogliere dei possibili propalatori o trafugatori di sistemi, di metodi speciali, di formule segrete e di brevetti preziosi, dato che gli operai possono domani abbandonare l’azienda od officina per recarsi in un’altra.
2) Le maestranze sarebbero sempre più o meno malcontente degli operai che le rappresenterebbero nel consiglio di d’amministrazione.
In realtà mi disse Notari, «negli industriali si manifesta una irriducibile repugnanza ad avere al fianco l’operaio servitore o schiavo di ieri ».
Vecchia concezione medievale del padrone capitalista chiuso coi suoi amici azionisti nel ricco ed elegante studio che guarda attraverso gli eleganti pizzi delle sue tendine il fiume nero degli operai che scorre nelle vaste arterie della sua immensa fabbrica fra il rosseggiare degli alti forni e le cataste di coke.
Ma l’ostilità — soggiungeva Notari — viene anche dagli operai, i quali non comprendono assolutamente l’ascensione morale che l’azionariato offre loro e sono d’altra parte sobillati dai capi e agitatori contro l’azionariato stesso che tende a distruggere ogni loro ragione d’essere, poiché addormenta la lotta di classe ».
Notari conveniva con me che in fondo si tratta di ostacoli di un valore molto relativo.

F.T.MARINETTI.

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